da Marco Vergani | Lug 7, 2020 | Diritto d'autore, Music and taxation
I musicisti/producer con partita Iva forfettaria che ricevono proventi a titolo di diritto d’autore dalle proprie label possono manifestare dei dubbi circa il corretto trattamento fiscale di tali proventi.
L’Agenzia delle Entrate è intervenuta sul punto nella risposta ad interpello n. 517 del 12 dicembre 2019, secondo la quale i proventi a titolo di diritti d’autore conseguiti da un contribuente che applica il regime forfetario, mantengono le proprie modalità di determinazione del reddito imponibile (tassazione con riduzione del 25% ovvero del 40%, a seconda dell’età del percipiente) ma vengono assoggettati all’imposta sostitutiva.
Normalmente i contratti discografici con le label che garantiscono la distribuzione in formato digitale sulle principali piattaforme (Spotify, ecc..), dell’opera musicale, effettuano il pagamento delle royalties solo al superamento del c.d. “break even point” ossia l’ammontare dei costi di promozione (o anche di eventuale produzione) del disco anticipati all’artista dall’etichetta stessa in sede di stipula del contratto.
Superata questa soglia l’artista si vede finalmente accreditate le somme relative alle royalties spettanti secondo le percentuali pattuite nel contratto.
Secondo l’Agenzia delle Entrate, se l’artista che percepisce le royalties è in regime forfettario, tali proventi:
- sono ridotti del 25% (o del 40% se sono percepiti da soggetti di età inferiore ai 35 anni), ai sensi del comma 8 dell’articolo 54 Tuir,
- tale importo è cumulato con gli altri compensi percepiti dal professionista soggetti alle ordinarie aliquote di abbattimento forfetario al fine di applicare l’imposta sostitutiva.
Pertanto, i diritti d’autore mantengono la propria modalità di determinazione dell’importo tassabile, ma poi vengono assoggettati all’imposta sostitutiva (5% o 15%) propria del regime forfettario.
E’ bene infine ricordare che i proventi conseguiti a titolo di diritti d’autore concorrono alla verifica della soglia di 65.000 euro relativa ai ricavi o compensi incassati nel corso del periodo d’imposta, per verificare la permanenza o meno del contribuente nel regime (ricordando che il superamento di tale soglia comporta la fuoriuscita dal periodo d’imposta successivo quello di superamento stesso).
da Marco Vergani | Mag 12, 2020 | Taxation in Italy
Repatriating one or more stages of production carried out across the border by a subsidiary company or by a foreign branch could be necessary due to the emergency linked to the spread of coronavirus.
In the planning of the return to Italy, it must first be remembered that, for tax purposes, the tax period must be considered in a uniform manner. The headquarter transfer does not determine two different tax periods and, consequently, it is necessary to verify whether, in the year of repatriation, the company should be considered resident in Italy or abroad.
According to article 73, of Presidential Decree 917/1986 (Tuir) a person is considered resident for tax purposes when he has at least one of the elements in Italy for most of the tax period that suggest residence (registered office, administrative headquarters, or corporate purpose).
Taking into account that 2020 is a leap year, this condition occurs when the 184 days are exceeded. Simplifying, therefore, if a company transfers its headquarters in Italy by 1 July 2020, it is considered resident in Italy from that year. However, it is necessary to verify how the transfer of the registered office in Italy is treated by the legislation of the foreign state for the different effects that may arise (i.e. time of cancellation of the company from the Register of companies). In the previous example, therefore, the repatriated company will be fiscally resident in Italy in 2020 if the cancellation from the foreign business register takes place by 1 July 2020. If, however, the transfer qualifies as a dissolution hypothesis, the company will assume as the initial date of it’s tax period in Italy, the one of the transfer, regardless of whether it occurs in the first or second part of the year.
The tax valuation criteria of the assets and liabilities belonging to the company moved to Italy are defined by article 166-bis of the Tuir .
The first assessment must be made based on the location of the foreign company.
- If it comes from a state belonging to the EU or white list (Ministerial Decree of 4 September 1996), the incoming tax value of the assets and liabilities is the market value.
- The same criterion also applies in cases of origin from non-EU states or non-white lists in the event of an agreement following rulings based on article 31-ter of Presidential Decree 600/73.
- In the other cases the entry tax value of the assets is assumed to be the lower of the purchase cost, the book value and the market value; for liabilities, however, the higher of the same values must be assumed.
Finally, it should be noted that, if the subject of the transfer is a company or a business unit, the value must be considered taking into account the goodwill.
da Marco Vergani | Apr 27, 2020 | Music and taxation
Una delle fonti reddituali degli artisti musicali è costituita dalla vendita delle licenze di sincronizzazione in grandi cataloghi online. In passato, questi vantaggi erano riservati in gran parte a grandi artisti e a gruppi musicali di fama mondiale: oggi i servizi di music licensing hanno aperto ai musicisti indipendenti, grazie alla ricerca sempre più dettagliata di materiale nuovo ed interessante da parte delle agenzie pubblicitarie che lavorano per medi e grandi brand. Con il termine sincronizzazione si intende l’abbinamento o l’associazione permanente tra opere musicali e immagini fisse o in movimento; la registrazione dell’opera musicale, pertanto, non solo viene duplicata ma, altresì, abbinata (ovvero sincronizzata) ad un prodotto diverso (ad esempio ad un filmato pubblicitario, ad un videoclip, un filmato cinematografico, ecc..).
Dal punto di vista legale la disciplina applicabile a tale tipologia di utilizzi è quella contenuta nell’art. 72 della Legge sul Diritto d’Autore che riguarda appunto la riproduzione diretta o indiretta, temporanea o permanente, dell’opera musicale in qualunque modo o forma, in tutto o in parte e con qualsiasi processo di duplicazione. Tutte queste operazioni non possono compiersi senza il preventivo consenso dell’avente diritto, ossia di norma dell’autore. Numerose sentenze hanno infatti affermato che la riproduzione in copia di spezzoni musicali per esigenze tecniche legate ad una qualsiasi forma di utilizzazione, è illegittima se effettuata senza l’autorizzazione del titolare del diritto (vd. Cass. n. 12993 del 23/11/1999 che coinvolgeva la società RTI del gruppo Mediaset per l’utilizzo senza consenso dell’opera musicale Yesterday dei Beatles quale colonna sonora di uno spot pubblicitario).
Sul fronte fiscale i redditi conseguiti a fronte della concessione del diritto alla sincronizzazione sono inquadrabili tra di compensi (redditi) derivanti dallo sfruttamento economico di opere coperte dal diritto d’autore . Tali redditi sono costituiti dai proventi in denaro (o in natura) percepiti nel periodo s’imposta ridotti del 25% (40% se il soggetto percettore ha meno di 35 anni) a titolo di deduzione forfettaria. Il committente dovrà applicare la ritenuta d’acconto del 20% sull’importo erogato. Se il committente è una società estera non dovrà essere effettuata nessuna ritenuta.
da Marco Vergani | Apr 21, 2020 | Start-up
Le clausole di co-vendita costituiscono ormai una prassi nella redazione degli accordi parasociali stipulati in occasione di operazioni aventi per
oggetto la cessione di partecipazioni societarie ovvero la costituzione di società in partnership. La prima distinzione che è opportuno operare è quella tra le clausole di tag-along o di accodamento e quelle di drag-along o di trascinamento.
Le prime hanno per oggetto il diritto attribuito al socio di minoranza di vendere unitamente al socio di maggioranza le proprie partecipazioni alle medesime condizioni da questo pattuite con terzi, ovvero a condizioni predeterminate, mentre le seconde hanno per oggetto l’obbligo per il socio di minoranza di vendere le proprie partecipazioni assieme al socio di maggioranza alle condizioni da questo pattuite con un terzo per la cessione delle proprie partecipazioni.
C’è anche da osservare che, specie negli ultimi anni, si è assistito ad una tendenza sempre più insistente a trasferire tali pattuizioni negli statuti delle società onde dare efficacia alle stesse anche verso i terzi. Quindi da clausole prettamente di natura obbligatoria contenute negli accordi parasociali, le clausole di co-vendita sono divenute clausole di natura statutaria.
Parlando nello specifico delle clausole di tag-along esse sono nate come forma di tutela dell’interesse del socio di minoranza a che la sua partecipazione, in quanto non determinate nella gestione della società, di fatto resti senza valore di mercato. In verità tale obiettivo nella prassi contrattuale ha poi assunto diverse sfaccettature a seconda delle esigenze del socio di minoranza che ne chiede la concessione.
Ad esempio spesso il fine perseguito è quello di un completamento, o meglio alternativa, al diritto di prelazione non avendo il socio di minoranza la capacità o la volontà di esercitare il diritto di prelazione in occasione del mutamento non gradito della compagine sociale. Ovvero, più semplicemente, lo scopo perseguito è quello di volersi avvantaggiare della
maggiore capacità commerciale del socio di maggioranza e via dicendo.
A fronte di tale varietà di motivazioni la clausola di tag-along ha assunto diverse formulazioni.
Essa può prevedere il semplice diritto del socio di minoranza di vendere alle medesime condizioni del socio di maggioranza e solo se costui venda l’intera propria partecipazione. A tale diritto può accompagnarsi l’espressa impossibilità di vendere per il socio di maggioranza qualora non sia venduta anche la partecipazione del socio di minoranza.
Lo schema iniziale può essere reso anche più complesso qualora sia previsto altresì l’impegno del socio di maggioranza, nel caso in cui il terzo non intenda comprare la partecipazione del socio di minoranza, di acquistare lui stesso la partecipazione ovvero di ridurre proporzionalmente la partecipazione che esso vorrebbe cedere a favore della cessione della partecipazione del socio di minoranza.
Secondo una recente Sentenza del Tribunale di Milano (Sez. Impr., 18 aprile 2019 – Pres. Est. E. Riva Crugnola – G. P. c. Mahindra & Mahindra Limited) la clausola di tag-along non sarebbe applicabile nel caso di cessione di una partecipazione tra due società appartenenti al medesimo gruppo. Come abbiamo visto sopra, l’obiettivo primario perseguito dal socio di minoranza nell’ottenere un diritto di accodamento, è quello di evitare che la propria partecipazione di minoranza, non essendo ritenuta determinante ai fini della gestione della società, resti priva di valore nel caso di cessione a terzi. Pertanto nel caso di cessione derivante da una mera riorganizzazione del gruppo, la tutela del socio di minoranza non avrebbe ragione
d’essere. Infatti secondo il Tribunale di Milano uno dei principali
obiettivi perseguiti dal socio di minoranza che chiede la concessione di una clausola di accodamento è quello di suddividere il premio di maggioranza con il socio dominante. Pertanto è presupponibile che nella determinazione del corrispettivo di cessione in un trasferimento intra-gruppo tale componente non sia valorizzata o lo sia in misura estremamente modesta, sì che tale vendita sarebbe correttamente da escludere dal campo di applicazione del dritto di co-vendita.
da Marco Vergani | Apr 15, 2020 | Start-up, Startup
Nelle start-up innovative, così come in tutte le società di capitali, le decisioni assembleari spettano ai soci. Il concorso dei soci si esprime per mezzo dell’esercizio del voto, che potrà essere favorevole o contrario all’approvazione della proposta, ovvero anche astenuto.
L’esercizio del voto è assolutamente libero e libero il suo orientamento, alla cui formazione tuttavia potrà anche influire la discussione che è stata fatta nel corso dell’assemblea mediante gli interventi dei soci convenuti e mediante le dichiarazioni ed illustrazioni, che i proponenti della deliberazione hanno eventualmente fatto.
Potrà anche accadere che, nel corso dello scambio di opinioni in attesa dell’espressione del voto, alcuni soci si accordino sul voto da esprimere senza che al riguardo assumano un impegno.
Qualora invece l’accordo sul voto assuma la veste di un impegno ci si trova in presenza di un patto parasociale. Questi patti sono negozi plurilaterali simili ai contratti, con i quali viene convenuta una comune condotta nell’espressione del voto in assemblea, e pertanto soggetti alla disciplina che il codice civile detta per il contratto.
L’art. 2341 bis c.c. stabilisce che i patti devono avere per oggetto l’esercizio del diritto di voto, il quale pertanto perde la sua caratteristica di assoluta libertà per soggiacere al vincolo negoziale assunto dal suo titolare.
Il loro scopo inoltre deve essere quello della stabilizzazione degli assetti proprietari delle quote societarie o il governo della società nel senso che, come capita spesso nelle start-up, i contraenti si impegnano a mantenere la proprietà delle loro quote per una significativa durata temporale in armonia con l’intento di realizzare il programma societario, che vogliono realizzare.
Ma casa accade in caso di violazione dell’accordo parasociale?
Normalmente l’esercizio del diritto di voto potrà essere, in osservanza del patto, positivo o negativo, secondo la valutazione che i contraenti del patto parasociale ne avranno fatto.
Questa valutazione dovrà riguardare la deliberazione, che l’assemblea dovrà assumere sulla proposta ricevuta, e non sempre potrà essere fatta nel corso dell’assemblea, secondo la complessità dell’operazione in esame; pertanto, sarà opportuno che nel patto sia prevista una riunione, anteriore all’assemblea, dei soci contraenti, ad iniziativa di uno di essi, per dibattere tranquillamente ed approfonditamente la qualità del voto che dovranno esprimere.
Se il dibattito non pervenisse ad un risultato comune, positivo o negativo,i contraenti dovrebbero astenersi dal voto, posizione questa armonica con l’esito del predetto dibattito.
Tuttavia, se uno di essi votasse in contrasto con la posizione manifestata dall’altro contraente, si porrebbe per quest’ultimo il potere di chiedere la risoluzione del patto per inadempimento del votante.
In applicazione dell’art. 1453, comma 1, c.c., relativo alla disciplina del contratto in generale, alla domanda di risoluzione potrebbe unirsi anche quella del risarcimento del danno, della cui natura e quantità dovrebbe fornire la prova.
Questa sarà difficile perché riguarderà la natura dell’operazione deliberata e il riflesso che la sua esecuzione potrà avere sul patrimonio della società e,
quindi, sul patrimonio del socio.
Questa possibile difficoltà dovrebbe essere preventivamente immaginata e dovrebbe consigliare i contraenti del patto di includervi una clausola penale, con la quale venga stabilito il pagamento di una determinata somma di denaro da parte dell’inadempiente a favore dell’altro contraente, a norma dell’art. 1382 c.c. .
da Marco Vergani | Feb 12, 2020 | E-commerce
Con la risposta all’interpello 48 pubblicata in data 11/02/2020 dall’agenzia delle Entrate viene confermata la possibilità di avvalersi del regime forfettario di cui alla legge 190/2014 anche in caso di esercizio di attività normalmente soggette al regime del margine.
Il caso riguardava un contribuente interessato ad avviare un’attività di “compro oro”, consistente nell’acquisto da privati di oggetti preziosi usati da destinare alla fusione oppure alla rivendita a privati e/o altri soggetti.
Ai fini Iva, l’attività di compro oro è soggetta al regime del margine disciplinato dal Dl 41/1995, ferma restando la facoltà di optare per il regime Iva ordinario. Il comma 57 della legge 190/2014 preclude il regime forfetario alle persone fisiche che si avvalgono di regimi speciali ai fini Iva (quale è quello del margine) o di regimi forfettari di determinazione del reddito.
Con la circolare 10/E/2016, l’Agenzia aveva chiarito che l’esercizio di una attività esclusa dal regime forfettario preclude l’accesso al regime per tutte le altre attività anche se non soggette ad un regime speciale. Con la circolare 9/E/2019, l’Agenzia aveva poi affermato che nel caso in cui il contribuente, avendone facoltà, opti per applicare l’Iva nei modi ordinari, è ammessa l’applicazione del regime forfettario, a condizione che l’opzione sia stata esercitata nell’anno d’imposta precedente a quello di applicazione del regime forfettario.
L’interpello riguardava proprio la circostanza di dover esercitare, nell’anno precedente, l’opzione per il regime ordinario, cosa non possibile per i soggetti che avviano un’attività per la prima volta e che, quindi, non hanno periodi di imposta precedenti. Riteneva pertanto l’istante di poter adottare un comportamento concludente, senza esercitare l’opzione per l’applicazione dell’Iva nei modi ordinari.
La risposta delle Entrate è favorevole. In particolare, viene precisato che quanto affermato nella circolare 9/E/2019 riguarda esclusivamente i soggetti preesistenti che esercitano un’attività già assoggettata al regime del margine. Ne consegue che coloro che iniziano l’attività e che quindi, nei periodi di imposta precedenti non hanno applicato il regime speciale, possono applicare il regime forfettario sin da subito, senza necessità di optare prima per il regime ordinario Iva.