da Marco Vergani | Apr 27, 2020 | Music and taxation
Una delle fonti reddituali degli artisti musicali è costituita dalla vendita delle licenze di sincronizzazione in grandi cataloghi online. In passato, questi vantaggi erano riservati in gran parte a grandi artisti e a gruppi musicali di fama mondiale: oggi i servizi di music licensing hanno aperto ai musicisti indipendenti, grazie alla ricerca sempre più dettagliata di materiale nuovo ed interessante da parte delle agenzie pubblicitarie che lavorano per medi e grandi brand. Con il termine sincronizzazione si intende l’abbinamento o l’associazione permanente tra opere musicali e immagini fisse o in movimento; la registrazione dell’opera musicale, pertanto, non solo viene duplicata ma, altresì, abbinata (ovvero sincronizzata) ad un prodotto diverso (ad esempio ad un filmato pubblicitario, ad un videoclip, un filmato cinematografico, ecc..).
Dal punto di vista legale la disciplina applicabile a tale tipologia di utilizzi è quella contenuta nell’art. 72 della Legge sul Diritto d’Autore che riguarda appunto la riproduzione diretta o indiretta, temporanea o permanente, dell’opera musicale in qualunque modo o forma, in tutto o in parte e con qualsiasi processo di duplicazione. Tutte queste operazioni non possono compiersi senza il preventivo consenso dell’avente diritto, ossia di norma dell’autore. Numerose sentenze hanno infatti affermato che la riproduzione in copia di spezzoni musicali per esigenze tecniche legate ad una qualsiasi forma di utilizzazione, è illegittima se effettuata senza l’autorizzazione del titolare del diritto (vd. Cass. n. 12993 del 23/11/1999 che coinvolgeva la società RTI del gruppo Mediaset per l’utilizzo senza consenso dell’opera musicale Yesterday dei Beatles quale colonna sonora di uno spot pubblicitario).
Sul fronte fiscale i redditi conseguiti a fronte della concessione del diritto alla sincronizzazione sono inquadrabili tra di compensi (redditi) derivanti dallo sfruttamento economico di opere coperte dal diritto d’autore . Tali redditi sono costituiti dai proventi in denaro (o in natura) percepiti nel periodo s’imposta ridotti del 25% (40% se il soggetto percettore ha meno di 35 anni) a titolo di deduzione forfettaria. Il committente dovrà applicare la ritenuta d’acconto del 20% sull’importo erogato. Se il committente è una società estera non dovrà essere effettuata nessuna ritenuta.
da Marco Vergani | Apr 21, 2020 | Start-up
Le clausole di co-vendita costituiscono ormai una prassi nella redazione degli accordi parasociali stipulati in occasione di operazioni aventi per
oggetto la cessione di partecipazioni societarie ovvero la costituzione di società in partnership. La prima distinzione che è opportuno operare è quella tra le clausole di tag-along o di accodamento e quelle di drag-along o di trascinamento.
Le prime hanno per oggetto il diritto attribuito al socio di minoranza di vendere unitamente al socio di maggioranza le proprie partecipazioni alle medesime condizioni da questo pattuite con terzi, ovvero a condizioni predeterminate, mentre le seconde hanno per oggetto l’obbligo per il socio di minoranza di vendere le proprie partecipazioni assieme al socio di maggioranza alle condizioni da questo pattuite con un terzo per la cessione delle proprie partecipazioni.
C’è anche da osservare che, specie negli ultimi anni, si è assistito ad una tendenza sempre più insistente a trasferire tali pattuizioni negli statuti delle società onde dare efficacia alle stesse anche verso i terzi. Quindi da clausole prettamente di natura obbligatoria contenute negli accordi parasociali, le clausole di co-vendita sono divenute clausole di natura statutaria.
Parlando nello specifico delle clausole di tag-along esse sono nate come forma di tutela dell’interesse del socio di minoranza a che la sua partecipazione, in quanto non determinate nella gestione della società, di fatto resti senza valore di mercato. In verità tale obiettivo nella prassi contrattuale ha poi assunto diverse sfaccettature a seconda delle esigenze del socio di minoranza che ne chiede la concessione.
Ad esempio spesso il fine perseguito è quello di un completamento, o meglio alternativa, al diritto di prelazione non avendo il socio di minoranza la capacità o la volontà di esercitare il diritto di prelazione in occasione del mutamento non gradito della compagine sociale. Ovvero, più semplicemente, lo scopo perseguito è quello di volersi avvantaggiare della
maggiore capacità commerciale del socio di maggioranza e via dicendo.
A fronte di tale varietà di motivazioni la clausola di tag-along ha assunto diverse formulazioni.
Essa può prevedere il semplice diritto del socio di minoranza di vendere alle medesime condizioni del socio di maggioranza e solo se costui venda l’intera propria partecipazione. A tale diritto può accompagnarsi l’espressa impossibilità di vendere per il socio di maggioranza qualora non sia venduta anche la partecipazione del socio di minoranza.
Lo schema iniziale può essere reso anche più complesso qualora sia previsto altresì l’impegno del socio di maggioranza, nel caso in cui il terzo non intenda comprare la partecipazione del socio di minoranza, di acquistare lui stesso la partecipazione ovvero di ridurre proporzionalmente la partecipazione che esso vorrebbe cedere a favore della cessione della partecipazione del socio di minoranza.
Secondo una recente Sentenza del Tribunale di Milano (Sez. Impr., 18 aprile 2019 – Pres. Est. E. Riva Crugnola – G. P. c. Mahindra & Mahindra Limited) la clausola di tag-along non sarebbe applicabile nel caso di cessione di una partecipazione tra due società appartenenti al medesimo gruppo. Come abbiamo visto sopra, l’obiettivo primario perseguito dal socio di minoranza nell’ottenere un diritto di accodamento, è quello di evitare che la propria partecipazione di minoranza, non essendo ritenuta determinante ai fini della gestione della società, resti priva di valore nel caso di cessione a terzi. Pertanto nel caso di cessione derivante da una mera riorganizzazione del gruppo, la tutela del socio di minoranza non avrebbe ragione
d’essere. Infatti secondo il Tribunale di Milano uno dei principali
obiettivi perseguiti dal socio di minoranza che chiede la concessione di una clausola di accodamento è quello di suddividere il premio di maggioranza con il socio dominante. Pertanto è presupponibile che nella determinazione del corrispettivo di cessione in un trasferimento intra-gruppo tale componente non sia valorizzata o lo sia in misura estremamente modesta, sì che tale vendita sarebbe correttamente da escludere dal campo di applicazione del dritto di co-vendita.
da Marco Vergani | Apr 15, 2020 | Start-up, Startup
Nelle start-up innovative, così come in tutte le società di capitali, le decisioni assembleari spettano ai soci. Il concorso dei soci si esprime per mezzo dell’esercizio del voto, che potrà essere favorevole o contrario all’approvazione della proposta, ovvero anche astenuto.
L’esercizio del voto è assolutamente libero e libero il suo orientamento, alla cui formazione tuttavia potrà anche influire la discussione che è stata fatta nel corso dell’assemblea mediante gli interventi dei soci convenuti e mediante le dichiarazioni ed illustrazioni, che i proponenti della deliberazione hanno eventualmente fatto.
Potrà anche accadere che, nel corso dello scambio di opinioni in attesa dell’espressione del voto, alcuni soci si accordino sul voto da esprimere senza che al riguardo assumano un impegno.
Qualora invece l’accordo sul voto assuma la veste di un impegno ci si trova in presenza di un patto parasociale. Questi patti sono negozi plurilaterali simili ai contratti, con i quali viene convenuta una comune condotta nell’espressione del voto in assemblea, e pertanto soggetti alla disciplina che il codice civile detta per il contratto.
L’art. 2341 bis c.c. stabilisce che i patti devono avere per oggetto l’esercizio del diritto di voto, il quale pertanto perde la sua caratteristica di assoluta libertà per soggiacere al vincolo negoziale assunto dal suo titolare.
Il loro scopo inoltre deve essere quello della stabilizzazione degli assetti proprietari delle quote societarie o il governo della società nel senso che, come capita spesso nelle start-up, i contraenti si impegnano a mantenere la proprietà delle loro quote per una significativa durata temporale in armonia con l’intento di realizzare il programma societario, che vogliono realizzare.
Ma casa accade in caso di violazione dell’accordo parasociale?
Normalmente l’esercizio del diritto di voto potrà essere, in osservanza del patto, positivo o negativo, secondo la valutazione che i contraenti del patto parasociale ne avranno fatto.
Questa valutazione dovrà riguardare la deliberazione, che l’assemblea dovrà assumere sulla proposta ricevuta, e non sempre potrà essere fatta nel corso dell’assemblea, secondo la complessità dell’operazione in esame; pertanto, sarà opportuno che nel patto sia prevista una riunione, anteriore all’assemblea, dei soci contraenti, ad iniziativa di uno di essi, per dibattere tranquillamente ed approfonditamente la qualità del voto che dovranno esprimere.
Se il dibattito non pervenisse ad un risultato comune, positivo o negativo,i contraenti dovrebbero astenersi dal voto, posizione questa armonica con l’esito del predetto dibattito.
Tuttavia, se uno di essi votasse in contrasto con la posizione manifestata dall’altro contraente, si porrebbe per quest’ultimo il potere di chiedere la risoluzione del patto per inadempimento del votante.
In applicazione dell’art. 1453, comma 1, c.c., relativo alla disciplina del contratto in generale, alla domanda di risoluzione potrebbe unirsi anche quella del risarcimento del danno, della cui natura e quantità dovrebbe fornire la prova.
Questa sarà difficile perché riguarderà la natura dell’operazione deliberata e il riflesso che la sua esecuzione potrà avere sul patrimonio della società e,
quindi, sul patrimonio del socio.
Questa possibile difficoltà dovrebbe essere preventivamente immaginata e dovrebbe consigliare i contraenti del patto di includervi una clausola penale, con la quale venga stabilito il pagamento di una determinata somma di denaro da parte dell’inadempiente a favore dell’altro contraente, a norma dell’art. 1382 c.c. .
da Marco Vergani | Feb 12, 2020 | E-commerce
Con la risposta all’interpello 48 pubblicata in data 11/02/2020 dall’agenzia delle Entrate viene confermata la possibilità di avvalersi del regime forfettario di cui alla legge 190/2014 anche in caso di esercizio di attività normalmente soggette al regime del margine.
Il caso riguardava un contribuente interessato ad avviare un’attività di “compro oro”, consistente nell’acquisto da privati di oggetti preziosi usati da destinare alla fusione oppure alla rivendita a privati e/o altri soggetti.
Ai fini Iva, l’attività di compro oro è soggetta al regime del margine disciplinato dal Dl 41/1995, ferma restando la facoltà di optare per il regime Iva ordinario. Il comma 57 della legge 190/2014 preclude il regime forfetario alle persone fisiche che si avvalgono di regimi speciali ai fini Iva (quale è quello del margine) o di regimi forfettari di determinazione del reddito.
Con la circolare 10/E/2016, l’Agenzia aveva chiarito che l’esercizio di una attività esclusa dal regime forfettario preclude l’accesso al regime per tutte le altre attività anche se non soggette ad un regime speciale. Con la circolare 9/E/2019, l’Agenzia aveva poi affermato che nel caso in cui il contribuente, avendone facoltà, opti per applicare l’Iva nei modi ordinari, è ammessa l’applicazione del regime forfettario, a condizione che l’opzione sia stata esercitata nell’anno d’imposta precedente a quello di applicazione del regime forfettario.
L’interpello riguardava proprio la circostanza di dover esercitare, nell’anno precedente, l’opzione per il regime ordinario, cosa non possibile per i soggetti che avviano un’attività per la prima volta e che, quindi, non hanno periodi di imposta precedenti. Riteneva pertanto l’istante di poter adottare un comportamento concludente, senza esercitare l’opzione per l’applicazione dell’Iva nei modi ordinari.
La risposta delle Entrate è favorevole. In particolare, viene precisato che quanto affermato nella circolare 9/E/2019 riguarda esclusivamente i soggetti preesistenti che esercitano un’attività già assoggettata al regime del margine. Ne consegue che coloro che iniziano l’attività e che quindi, nei periodi di imposta precedenti non hanno applicato il regime speciale, possono applicare il regime forfettario sin da subito, senza necessità di optare prima per il regime ordinario Iva.
da Marco Vergani | Feb 12, 2020 | Business plan, Startup
La start-up che si approccia alla finanza ordinaria (banca, leasing, factoring) o alternativa (private equity, private debt, quotazione in borsa) deve mostrare numeri convincenti ai soggetti che a titolo di equity o di debito hanno intenzione di investirvi. Da qui l’attenzione non solo ai risultati storici (bilanci) ma anche a quelli prospettici (budget, forecast e business plan).
Sia i finanziatori di equity (private equity e borsa) sia quelli di debito (banca, private debt, leasing e factoring) decidono se investire sulla base della bontà dei numeri. Ciò tuttavia con un’attenzione ad aspetti differenti. Chi apporta equity, infatti, sarà interessato a una corretta valorizzazione dell’impresa in cui sta investendo. Spesso il fondo di private equity o la borsa valutano le start-up in base al metodo dei multipli di mercato, particolarmente apprezzato per la sua immediatezza e facilità di applicazione: il valore dell’impresa (equity value) sarà pari al prodotto dell’Ebitda per un determinato multiplo, cui andrà sottratta la posizione finanziaria netta. L’obiettivo di questo investitore è infatti quello di conseguire un capital gain dall’operazione effettuata. Ciò sarà valido sia nel caso del private equity, che mira a massimizzare l’Irr (Internal rate of return) del proprio investimento, sia nel caso della borsa, dove l’investitore vorrà conseguire un guadagno in conto capitale fra il prezzo di acquisto o di sottoscrizione e quello di vendita. Viceversa chi finanzia a titolo di debito non avrà particolare interesse alla corretta valorizzazione della start-up, ma ad assicurarsi che l’azienda sia in grado di rimborsare il debito (quota capitale e quota interessi) lungo la durata del prestito. La valutazione avviene attraverso il monitoraggio di determinati indici di bilancio quali il leverage ratio (debito/Ebitda), che misura gli anni necessari al rimborso del debito dato un certo livello di Ebitda e il gearing ratio (debito/patrimonio netto) ovvero il livello di leva finanziaria.
Comun denominatore di queste differenti valutazioni è comunque la bontà dei numeri espressi dalla start-up. Sotto questo profilo, pertanto, il bilancio di esercizio non può che essere il principale biglietto da visita dell’impresa agli occhi dei finanziatori a vario titolo. Infatti le banche comunemente attendono la stagione dei bilanci per rivalutare le pratiche di affidamento, confermando i fidi, incrementandoli in caso di performance positiva o riducendoli se negativa. Ma anche il private equity, interessato a comprendere se e in che misura entrare nel capitale della start-up guarderà ai bilanci. E lo stesso fa la borsa, il cui giudizio sulla performance aziendale è addirittura giornaliero, in presenza di un prezzo che oscilla quotidianamente. Anche per le quotate, dunque, la stagione dei bilanci rappresenta un evento di valutazione molto importante.
Giova considerare, tuttavia, che accanto all’aspetto che possiamo definire storico, proprio del bilancio, deve essere riposta la massima attenzione anche su quello prospettico. Chi investe non è tanto (e non solo) interessato ai numeri che l’impresa ha conseguito in passato, ma anche e soprattutto a quelli che sarà in grado di raggiungere. Da questo punto di vista hanno la massima importanza i forecast, i budget e i piani pluriennali. I primi, infatti, consentono di misurare l’andamento della gestione fino ad una certa data e di proiettare poi questi per individuare la presumibile chiusura dell’esercizio in corso. Il budget rappresenta, invece, la fase più prodromica in quanto alla fine dell’anno precedente (o al massimo nei primissimi mesi del successivo) si andranno a costruire le previsioni sull’anno successivo. Esercizio più complesso è quello del piano pluriennale, a tre o cinque anni, per immaginare le performance di un arco temporale futuro.
Accanto alla pianificazione è poi fondamentale il controllo di gestione. Ciò per due finalità: la prima di misurazione della performance (meglio se mensile) e di correzione della gestione qualora la stessa appaia insoddisfacente; la seconda per misurare gli scostamenti fra il consuntivo e quanto preventivato in fase di proiezioni (forecast, budget e piano).
Gli indici da monitorare: posizione finanziare ed Ebitda
Alcuni indicatori di bilancio sono comunemente utilizzati sia per interventi di equity (borsa, private equity) sia di debito (banca, private debt). Si tratta di indicatori necessari sia per la valorizzazione della start-up mediante i multipli di mercato) sia per la costruzione di determinati indicatori (leverage ratio e gearing ratio). Tra questi in particolare l’Ebitda (Earning before interest taxes depreciation and amortization) e la posizione finanziaria netta (Pfn).
L’Ebitda o margine operativo lordo (Mol) è un indicatore che contrappone i costi e i ricavi della gestione caratteristica prima di considerare gli ammortamenti, gli accantonamenti, la componente finanziaria e le imposte. E’ molto utilizzato dagli analisti finanziari perché costituisce una buona approssimazione del flusso di cassa. Inoltre non risente di eventuali politiche di bilancio degli amministratori che fanno leva proprio sugli ammortamenti. Si differenzia, invece, dall’Ebit (risultato operativo) in quanto quest’ultimo si misura prima delle sole imposte e dell’area finanziaria, ma quindi dopo gli ammortamenti e gli accantonamenti.
Per quelle imprese che non hanno un peso rilevante delle immobilizzazione (e dei relativi ammortamenti) generalmente i due indicatori risultano molto simili. Viene anche utilizzato in misura percentuale rispetto al fatturato (Ebitda margin), dimostrando che l’impresa ha un certo appeal quando tale margine è in doppia cifra. Per quei settori che presentano un elevato valore aggiunto (moda, lusso, industrie di nicchia) può arrivare a toccare anche il 20-30 per cento e in quel caso la valorizzazione dell’impresa ne risentirà positivamente.
La posizione finanziaria netta misura l’indebitamento complessivo dell’impresa, quale differenza fra i debiti finanziari (tipicamente bancari) e la cassa attiva sul conto corrente. Un valore positivo della Pfn significa che la start-up è indebitata, viceversa un valore negativo dimostra che la stessa lavora su basi attive. A seconda del fatto che, in particolare, i debiti siano di breve o di medio lungo termine si avrà una Pfn di breve termine e una di medio lungo termine. Più la start-up è spostata nel medio lungo termine più il suo debito è consolidato e ciò si rende utile per fronteggiare l’attivo fisso (asset, immobilizzazioni). Se la posizione finanziaria netta è negativa, ovvero la start-up ha cassa attiva, nell’ambito della sua valutazione ciò determinerà un incremento del suo equity value. Di contro, una Pfn negativa (ovvero un indebitamento netto) ridurrà l’equity value.
Ciò in quanto
Equity value = enterprise value – Pfn
Enterprise value = Ebitda * multiplo
L’importanza della Pfn è altresì legata ad indicatori tipici che vengono utilizzati per la concessione di debito alla start-up. Il rapporto di indebitamento D/E (Debt to Equity), detto anche leva finanziaria, confronta l’indebitamento con il patrimonio netto e per valori particolarmente elevati dimostra che la start-up è sottocapitalizzata. Tale aspetto è particolarmente tenuto in considerazione dalle banche nelle istruttorie di fido.
Nella costruzione della Pfn occorre fare attenzione a due aspetti. Spesso il debito è sottostimato perché ci si dimentica di ricomprendere la componente dei leasing. Ciò accade in quanto, per i soggetti che redigono i bilanci in base ai principi Oic, il leasing non compare in bilancio. Pertanto nel calcolare la Pfn occorre ricordarsi di includerlo.
da Marco Vergani | Dic 30, 2019 | Amazon Taxation, E-commerce
Per le ditte in contabilità ordinaria, tenute ad effettuare le registrazioni in prima nota delle operazioni effettuate, sorge il problema di contabilizzare correttamente le vendite effettuate attraverso il canale di Amazon Marketplace.
Parliamo di vendite effettuate nei confronti di privati consumatori non soggette quindi all’obbligo di emissione della fattura (se non richiesta dal cliente al momento dell’ordine).
Il mio suggerimento è quello di utilizzare sempre un conto transitorio chiamato “Sospesi Internet” in contropartita al ricavo registrato in modo da facilitare la riconciliazione con l’estratto conto bancario nel momento in cui si riceverà l’accredito da parte di Amazon. Tale accredito è infatti cumulativamente riferito alle vendite di un determinato periodo di tempo e viene effettuato al netto delle commissioni trattenute dal portale.
Ipotizziamo i seguenti dati:
- merchant italiano (SRL) vende prodotti per Euro 100 (trascuriamo per semplicità l’Iva) a clienti privati
- Amazon Eu addebita commissioni per Euro 20
Vediamo come registrare in prima nota le operazioni.
Innanzitutto registriamo il ricavo per la vendita effettuata: in contropartita possiamo utilizzare un conto transitorio denominato “sospesi Internet” che si chiuderà poi con l’incasso del corrispettivo:
Sospesi Internet 100 a Ricavi da corrispettivi 100
Poi registriamo la fattura per le commissioni da parte di Amazon Eu: trattasi di fattura proveniente dal Lussemburgo quindi senza applicazione dell’Iva:
Costi per commissioni 20 a Debiti vs. fornitore Amazon 20
Infine al momento della ricezione degli importi da parte di Amazon, al netto delle commissioni trattenute, registriamo l’accredito sul conto carte di credito:
Banca c/c 80 a Sospesi Internet 80
e infine chiudiamo il fornitore Amazon sempre con il conto “Sospesi Internet” che in questo modo va ad azzerarsi:
Debiti vs. fornitore Amazon 20 a Sospesi Internet 20