da Marco Vergani | Nov 17, 2014 | Contenuti digitali, E-commerce
Diversi operatori stanno ricevendo in questi giorni delle comunicazioni da parte di Amazon dove vengono forniti i nuovi dettagli per la fatturazione a seguito della maturazione di royalties per cessione di contenuti digitali pubblicabili su Kindle.
A seguito di un accordo societario, infatti, la nuova società titolare dei diritti di sfruttamento relativi a Kindle Direct Publishing sarà, dal 1° novembre 2014, Amazon Media EU S.à.r.l. il cui numero di partita iva (VAT number) è il seguente: LU20944528.
E’ importante prendere nota di tale modifica in quanto la stessa impatta, oltre che sulle dichiarazioni instrastat da presentare con periodicità mensile o trimestrale, anche sulla comunicazione periodica delle operazioni intercorse con operatori residenti in paesi a fiscalità privilegiata (Amazon Media ha sede, come del resto Amazon EU, in Lussemburgo).
Tale adempimento lo ricordiamo, riguarda le operazioni attive e passive la cui controparte risiede in uno dei paesi rientranti nella c.d. “black list” dei paesi non collaborativi.
Anche la cessione di royalties nei confronti di Amazon, al superamento della soglia minima attualmente pari a Euro 500,00 per singola operazione, rientra pertanto in tale obbligo.
da Marco Vergani | Nov 11, 2014 | E-commerce, Fiscalità
La sentenza della Cassazione, n. 1811 del 17 gennaio 2014 (quella, per intederci, sulla tassazione del gioco on-line) offre qualche spunto di riflessione all’interno dell’acceso dibattito circa la necessità di modificare le norme tributarie nazionali e internazionali per consentire un adeguato livello di tassazione nel settore della web economy.
Il caso affrontato nella sentenza riguardava una società titolare di concessione AAMS per l’esercizio di giochi pubblici a distanza on line, la cui struttura necessaria per l’esercizio di tale attività (servers ed infrastrutture necessarie per il funzionamento del sito web attraverso cui è fornita l’offerta di gioco) nonché il luogo in cui vengono prese le decisioni riguardanti il «business italiano» erano localizzati all’estero mentre la società italiana, appartenente al medesimo gruppo, era utilizzata esclusivamente per attività di tipo ausiliario rispetto al core business (servizi di marketing e promizione dei giochi on-line, assistenza ai clienti italiani). La sentenza, richiamando in maniera puntuale consolidati principi di diritto tributario internazionale, afferma che il soggetto non va tassato in Italia in quanto la direzione effettiva dell’intero business è svolta all’estero ed ivi è localizzato l’oggetto principale della società.
Particolarmente rilevante appare la circostanza di aver appurato che il soggetto non residente non avesse in Italia né una sede di direzione né servers localizzati sul territorio, elementi che per definizione avrebbero potuto portare a concludere circa l’esistenza di una stabile organizzazione con conseguente “attrazione” di parte dei profitti conseguiti sotto la potestà impositiva del nostro paese.
Le norme ed i principi attuali in tema di fiscalità internazionale tendono a tassare il reddito dove viene svolta l’attività d’impresa principale che li genera. Tuttavia, come è facile intuire, questo criterio “territoriale” pare francamente inadeguato alla luce della realtà intangibile di internet e dei più recenti modelli di business adottati dalle imprese. Occorre riepensare il sistema andando a tassare i redditi lì dove vengono prodotti, ossia dove si trovano i consumatori, indipendentemente da dove venga «centralizzato» l’esercizio dell’attività d’impresa. Ovviamente non sarà sufficiente una semplice modifica normativa di diritto interno (vd. la c.d. web tax) ma dovrà necessariamente trattarsi di un percorso condiviso a livello internazionale.
da Marco Vergani | Ott 15, 2014 | Start-up, Startup
Con la Risoluzione 87/E del 14/10/2014 l’Agenzia delle Entrate interviene sui requisiti richiesti ai fini dell’iscrizione nell’elenco delle start-up innovative. Viene in particolare esaminato il secondo dei requisiti alternativi richiesti dall’art. 25, comma 2, lett. h Dl 179/2012 ossia quello della forza lavoro “qualificata“. Tale requisito, lo ricordiamo, prevede l’impego “come dipendenti o collaboratori a qualsiasi titolo, in percentuale uguale o superiore al terzo della forza lavoro complessiva, personale in possesso di titolo di dottorato di ricerca o che sta svolgendo un dottorato di ricerca presso un’università italiana o straniera, oppure in possesso di laurea e che abbia svolto, da almeno tre anni, attività di ricerca certificata presso istituti di ricerca pubblici o privati, in Italia o all’estero, ovvero, in percentuale uguale o superiore a due terzi della forza lavoro complessiva, personale in possesso di laurea magistrale“.
In sintesi l’Agenzia delle Entrate chiarisce che:
– qualsiasi lavoratore percipiente un reddito di lavoro dipendente ovvero a questo assimilato può essere ricompreso tra la forza lavoro rilevante ai fini della verifica della sussistenza del requisito;
– l’impiego del personale qualificato può avvenire sia in forma di lavoro dipendente che a titolo di parasubordinazione o comunque “a qualunque titolo” e che sicuramente rientra nel novero anche la figura del socio amministratore;
– tuttavia, il dato letterale della norma non può portare alla scissione della locuzione “collaboratore a qualsiasi titolo” da quella di “impiego”. Pertanto gli amministratori-soci possono essere considerati ai fini del rapporto di cui all’articolo 25, comma 2, lettera h), n. 2, del DL n. 179 /12, soltanto se anche soci-lavoratori o comunque aventi un impiego retribuito nella società “a qualunque titolo”, diverso da quello organico;
– in caso contrario, qualora i soci avessero l’amministrazione della società ma non fossero in essa impiegati, gli stessi non potrebbero essere considerati tra la forza lavoro, ai fini del citato rapporto, atteso che la condizione relativa “all’impiego” nella società non risulterebbe verificata;
– gli stagisti, essi possono essere computati quale forza lavoro solo nel caso in cui siano retribuiti mentre i consulenti esterni titolari di partita Iva non possono essere annoverati tra i dipendenti e i collaboratori rilevanti ai fini del citato rapporto;
– ai fini della verifica della percentuale di un terzo o di due terzi, si deve effettuare un calcolo “per teste” e non in base alla remunerazione.
L’intervento chiarificatore dell’Agenzia pare sicuramente apprezzabile. Tuttavia, con riguardo alla figura del socio-lavoratore non risulta chiaro se l’Agenzia intende riferirsi alla circostanza di fatto per cui il socio in quanto tale svolga la propria attività in favore della società (c.d. “socio d’opera” come definito ad es. ai fini inps) oppure al fatto che lo svolgimento dell’attività lavorativa da parte del socio sia necessariamente formalizzata in un apposito contratto di lavoro dipendente con la società.
Ricordiamo infatti che la seconda ipotesi, pur essendo generalmente ammessa dalla giurisprudenza, potrebbe conciliarsi in modo problematico con le condizioni dettate dall’inps (circolare 21.6.1983 n. 177) ai fini della ammissibilità di un rapporto di lavoro subordinato con la società. In tale documento di prassi infatti l’inps afferma, tra l’altro, che “la prestazioneda parte del socio di attività lavorativa per la società deve essere diversa da quella che svolge eventualmente come socio” e tale circostanza appare francamente poco realizzabile nell’ambito delle società a ristretta base societaria che spesso possiedono gli altri requisiti per essere start-up innovative.
Ricordo infine che secondo la giurisprudenza (da ultimo Tribunale di Genova sentenza 299/2014) il socio non può giuridicamente dipende da sè stesso e quindi non sarebbe possibile stipulare un contratto di lavoro subordinato quando si è in presenza di un unico socio o di partecipazioni maggioritarie.
da Marco Vergani | Mag 13, 2014 | E-commerce, Pagamenti on line
Da parte di molti clienti, attivi nell’ambito del commercio elettronico indiretto, viene segnalata la difficoltà di reperire i codici fiscali dei clienti privati italiani nei confronti dei quali venga emessa fattura a fronte di acquisti avvenuti attraverso il passaggio a siti di operatori quali E-bay od Amazon. In questi casi il flusso delle operazioni prevede, in modo molto sintetico, i seguenti passaggi:
1) il merchant pubblica il proprio catalogo di prodotti sul sito vetrina di Amazon marketplace (ad esempio);
2) il cliente finale che decide di acquistare un prodotto effettua il pagamento direttamente ad Amazon la quale trasmette l’ordine al merchant unitamente ai dati del cliente (nome, indirizzo, ecc..) necessari al fine di effettuare la spedizione della merce ordinata;
3) periodicamente Amazon gira le somme incassate al mercahant trattenendo le proprie commissioni che saranno oggetto di separata fatturazione ad opera della filiale lussemburghese della società americana .
Il problema evidenziato risiede nel fatto che, al momento della raccolta dell’ordine, Amazon non richiede al cliente tra i dati obbligatori il codice fiscale. Il merchant si vede così costretto a rincorrere il cliente finale che ha già perfezionato l’acquisto per richiedere tale dato necessario ai fini della corretta trasmissione all’Agenzia delle Entrate dell’elenco riepilogativo delle operazioni rilevanti ai fini IVa (c.d. spesometro).
Oltre ad aver più volte informato la stessa Amazon dell’esistenza del problema vediamo quali possono essere le possibili soluzioni. Una prima ipotesi potrebbe essere quella di registrare gli incassi dai clienti privati nel registro dei corrispettivi in luogo dell’emissione della fattura che diventa obbligatoria solo se espressamente richiesta dal cliente. Si ricorda infatti che il commercio elettronico indiretto è assimilato, anche ai fini della disciplina Iva, al commercio per corrispondenza. Per tali fattispecie non è obbligatoria l’emissione della fattura, a meno che non sia richiesta dal cliente non oltre il momento di effettuazione dell’operazione, come disposto dall’art. 22, comma 1, n. 1) del D.P.R. 633/1972.
Come seconda alternativa si potrebbe valutare la possibilità di usufruire dell’esonero dalla comunicazionde per i dati relativi ad operazioni nelle quali il pagamento è avventuto mediante carte di credito, di debito o prepagate emesse da operatori finanziari soggetti all’obbligo di comunicazione previsto dall’art. 7, sesto comma, del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 605. Un elenco di tali operatori è contenuto nell’allegato al provvedimento del Direttore dell’Agenzia del 22 dicembre 2005). Ovviamente tale soluzione implica la conoscenza della modalità di pagamento scelta dal cliente al momento dell’ordine informazione che, come sembra di capire, la stessa Amazon ha deciso di non condividere con i merchant.
da Marco Vergani | Apr 24, 2014 | Diritto di recesso, E-commerce
Tra le numerose novità destinate ad entrare in vigore il prossimo 13 giugno a seguito del recpimento della Direttiva 2011/83/UE c’è l’estensione del diritto di recesso ai contratti per la fornitura di software, applicazioni, giochi, musica, video o testi, indipendentemente dal fatto che l’accesso a tali dati avvenga tramite download, streaming, supporto materiale o tramite qualsiasi altro mezzo. Infatti la citata Direttiva fa rientrare tali contratti nell’ambito generale dei “contratti a distanza” per i quali sono previste una serie di tutele a favore dei consumatori/acquirenti tra cui, in particolare, il diritto di recesso. E’ opportuno ricordare che la Direttiva introduce una più articolata disciplina deldi tale diritto rispetto alle disposizioni attualmente vigenti. In particolare viene previsto un termine più ampio per l’esercizio del diritto che passa dagli attuali 10 a 14 giorni. Qualora venga omessa l’informazione sul diritto di recesso, il periodo entro il quale potrà essere esercitato il ripensamento viene esteso dagli attuali 60 e 90 giorni – rispettivamente, dalla conclusione del contratto o dalla consegna del bene – a ben dodici mesi.
Nel caso dei beni c.d. “digitali” viene tuttavia previsto che il diritto di recesso possa essere escluso mediante un esplicito assenso fornito dall’acquirente all’atto dell’acquisto (art. 59, co. 1, lett. o) D.Lgs. 6.9.2005, n. 206). A tal fine una formula da riportare nel proprio sito web potrebbe essere la seguente «Ai sensi dell’art. 16, lett. m) della Direttiva 2011/83/UE del 25 ottobre 2011 acconsento che l’esecuzione del contratto abbia inizio durante il periodo di recesso rinunciando così al diritto di recesso».
da Marco Vergani | Mar 28, 2013 | Fiscalità, Pareri, Start-up
Alle start-up innovative non si applicano le disposizioni in materia di società di comodo e di società in perdita sistematica di cui all’articolo 30 della legge 23/12/1994, n. 724 e all’art. 2, commi da 36-decies a 36-duodecies del dl 13/8/2011, n. 138.
Per “società di comodo” si intendono quelle che non sono preposte a svolgere un’attività economica o commerciale, ma soltanto a gestire un patrimonio mobiliare o immobiliare. L’ordinamento tributario prevede una disciplina di contrasto a tali tipi societari, volta ad evitarne l’utilizzo a fini antielusivi che viene derogato nel caso in commento. Le start-up innovative, infatti, ben difficilmente potrebbero prestarsi alla mera intestazione di beni che restano nella disponibilità dei soci, dal momento che la principale classe di immobilizzazioni immateriali iscritta nell’attivo di tali società sarà costituita dalle spese di ricerca e sviluppo ovvero investimenti necessari alla realizzazione del proprio oggetto sociale innovativo.
Tuttavia la disciplina delle start-up innovative nulla afferma circa l’applicabilità o meno a tali società degli studi di settore, ovvero di quel meccanismo che consente al fisco di stimare i ricavi attribuibili al contribuente sulla base dei dati contabili e delle caratteristiche strutturali dell’attività svolta.
Sembrerebbe un controsenso, da un lato, escludere le start-up innovative dall’applicazione dei meccanismi sulle società di comodo costringendole invece, dall’altro, a dichiarare comunque un reddito minimo sulla base di altri parametri tra cui l’entità degli invetimenti effettuati.
Sarebbe auspicabile che tali società venissero escluse dall’applicazione degli studi di settore prevedendo magari una causa di esclusione ad hoc o consentendo, in sede di compilazione del modello, di inserire una causa giustificativa di esonero costituita dall’iscrizione nell’apposita sezione speciale del registro delle impese.