Patent box e sviluppo della nuova versione di un software

Esaminiamo il caso di una società che ha emesso la nuova versione di un software a seguito di lavori svolti tra il 2019 e 2021. E’ possibile esercitare l’opzione per il nuovo Patent box per la nuova versione del software anche in presenza di una opzione esercitata con la vecchia normativa?

Con riguardo a un nuovo Ip (intellectual property) sorto nel periodo d’imposta in corso al 28 dicembre 2021, è possibile esercitare l’opzione solo per il nuovo Patent box (Pb), a prescindere da quando siano stati effettuati i lavori per la realizzazione e lo sviluppo dello stesso (provvedimento dell’agenzia delle Entrate 15 febbraio 2022, paragrafo 12.5), anche qualora l’Ip 2021 risulti complementare ad altri Ip oggetto di precedente opzione secondo il vecchio regime Patent box.

Ciò detto, nel caso di specie, risulta essenziale la mappatura degli Ip in capo alla società, per valutare se la nuova versione del software risponda effettivamente ai requisiti di legge, allo scopo di qualificarsi come un nuovo Ip autonomo (assoggettabile così al nuovo Pb), o se, diversamente, costituisca una semplice evoluzione dell’Ip esistente già opzionato in passato. In tale ultimo caso, infatti, sarebbe preclusa l’extra-deduzione dei costi R&S per lo sviluppo della nuova versione, e continuerebbe ad applicarsi la detassazione del reddito relativo al software già opzionato in passato secondo le regole del vecchio Pb.

La rilevanza dell’analisi legale è ancor più dirimente alla luce del fatto che, come precisato dalla bozza di circolare dell’agenzia delle Entrate in pubblica consultazione, risultano opzionabili al nuovo Pb anche i software protetti da copyright non registrati, per i quali – non potendosi fare riferimento a un atto formale come la registrazione – è necessaria una dichiarazione sostituiva a norma del Dpr 445/2000, al fine di attestarne l’esistenza e la rispondenza ai requisiti previsti dalla legge sul diritto d’autore.

Nell’ipotesi di applicabilità del nuovo Pb, per poter includere nella maggiorazione del 110% i costi sostenuti negli anni precedenti (afferenti alla creazione del software 2021), sarà comunque necessario attendere l’anno di registrazione di quest’ultimo alla Siae (Società italiana degli autori ed editori), così da poter applicare il “recapture” previsto dal meccanismo premiale. A tale ultimo fine, si sottolinea che i costi eventualmente già confluiti nel numeratore del nexus ratio per il vecchio Pb negli anni passati non sono agevolabili ai fini del nuovo Pb, così come disposto nel citato provvedimento 15 febbraio 2022.

Compravendite online tra privati: quando vanno dichiarati i redditi?

Spesso viene chiesto se la vendita di oggetti usati (può trattarsi di vecchi indumenti e oggetti usati ma anche beni di altro tipo come libri o card collezionabili) su piattaforme di commercio elettronico (come Vinted, eBay, e simili) può dar vita a risvolti fiscali in particolare alla necessità o meno di dichiarare quello che viene incassato.

Va subito detto che le compravendite online tra privati – se non sono a scopo di lucro – non subiscono tassazione. Ma cessioni o acquisti sul web offrono una casistica articolata. Proviamo ad analizzarla con ordine.

Secondo la legge italiana rientrano nella categoria dei “redditi diversi” anche le «attività commerciali non esercitate abitualmente». Questa è la formula usata nell’articolo 67, lettera i), Dpr 917/86. Che però non è di semplicissima lettura, e ancor meno di agevole applicazione: bisogna infatti circoscrivere due concetti essenziali, che sono:

1 la nozione di «attività commerciali»

2 quella di «esercizio abituale»

La prima definizione serve a distinguere ciò che è imponibile (perché, appunto, «commerciale») da ciò che resta nella sfera privata e non è quindi tassato.

La distinzione, nelle attività commerciali, tra quelle abituali e quelle non abituali serve invece a separare i redditi diversi, occasionali, e i redditi derivanti dall’esercizio d’impresa: per i primi, ancorché sia prevista la tassazione Irpef, non esistono particolari adempimenti; nel secondo caso, invece, bisogna aprire la partita Iva e assoggettarsi a tutti i relativi obblighi formali (iscrizione nel registro delle imprese, emissione fatture, contabilità e così via), scegliendo uno dei vari regimi fiscali applicabili alle attività autonome. Tra le altre conseguenze dell’esercizio non occasionale del commercio, sorge anche l’obbligo di iscrizione alla gestione Ivs commercianti presso l’Inps.

Entro quali limiti dunque l’operazione può essere considerata «non commerciale»?

Pur nell’incertezza interpretativa, un punto fermo è che per aversi operazione «commerciale» è necessario che la vendita sia stata preceduta da un acquisto preordinato ad essa, allo scopo di realizzare un profitto (è il cosiddetto intento speculativo, o fine di lucro).

Nell’attività “amatoriale”, al contrario, manca questa preordinazione dell’acquisto alla successiva vendita a scopo di profitto. Ad esempio, l’agenzia delle Entrate (risoluzione 5/E/2001) ritiene non commerciale l’operazione di un’associazione che venda all’asta opere d’arte ricevute in donazione, per finanziare i propri scopi istituzionali: si tratta, infatti, di una «semplice dismissione patrimoniale».

Se l’attività resta occasionale, l’imponibile Irpef va nel quadro D del 730, oppure nel quadro RL del modello Redditi. È tassata la differenza tra l’importo incassato nell’anno, e le spese “specificamente” inerenti. Non ogni spesa, quindi, risulta deducibile dal corrispettivo riscosso, ma solo quelle specifiche e sempreché siano adeguatamente documentate: ad esempio, oltre al costo di acquisto del bene, si potranno dedurre le commissioni applicate dalla piattaforma o dal sistema di pagamento; le spese di spedizione, se non rimborsate dall’acquirente.

Non sono invece deducibili le spese per beni e servizi che, pur se utilizzati per la vendita, non sono riferibili in via esclusiva all’attività commerciale, come ad esempio l’acquisto del Pc o tablet, l’abbonamento internet, i costi per archiviazione in cloud, e così via.

Il passaggio dalle operazioni commerciali occasionali all’attività imprenditoriale (con relativi obblighi) ha confini incerti: non sempre è facile dire con certezza il momento in cui si sconfina nell’attività «abituale professionalmente organizzata».

Un indice molto significativo è sicuramente la presenza di elementi strutturati, come: un sito proprio o una bacheca/negozio virtuale dedicati; l’acquisto di server; collaboratori; una rete di promotori/influencer che pubblicizzano i servizi; l’iscrizione a GoogleAds o servizi simili.

Ma chi lavora esclusivamente con il suo telefonino, tablet o Pc di casa, può diventare “imprenditore” tenuto ad aprire partita Iva? Si torna a questioni dibattute nei manuali di diritto commerciale degli anni ’60, che si domandavano se fosse imprenditore chi giocava in borsa usando solo il proprio telefono.

L’agenzia delle Entrate, in genere, basa gli accertamenti sul numero elevato di transazioni e sulle dimensioni economiche delle entrate.

Quando l’attività diventa abituale, ad esempio perché si è operativi con continuità tutto l’anno, si consegue un guadagno (vendendo ad un prezzo superiore a quello di acquisto), e l’importo complessivo non è trascurabile (indicativamente, sopra 5.000 euro di incasso), cresce sensibilmente la probabilità che il Fisco contesti la natura imprenditoriale anche a fini Iva .

Di recente la Cassazione (ordinanza 26987/2019) ha riconosciuto agli uffici (dell’Agenzia o della Guardia di Finanza) la facoltà avvalersi degli elenchi forniti dalle piattaforme online per fondare le proprie contestazioni, accertando i redditi non dichiarati sulla base delle transazioni registrate online. Si tratta di una presunzione semplice, che ammette una teorica (ma assai difficile) prova contraria; in pratica, tuttavia, quando il volume delle vendite cresce è meglio, se si vuole proseguire, prevenire brutte sorprese aprendo spontaneamente la partita Iva.

Dal punto di vista degli adempimenti, dal momento che l’attività di vendita non può più essere definita occasionale, occorre in primo luogo procedere con l’iscrizione, quale piccolo imprenditore, presso la Camera di Commercio competente, in base alla sede dell’attività (che può anche essere un’abitazione privata), con contestuale apertura di partita Iva; contestualmente, qualora lo consenta il Suap competente (ossia quello del Comune in cui ha sede la neonata impresa) o in un secondo momento, occorrerà comunicare l’inizio attività tramite una procedura telematica Scia (Segnalazione Certificata di Inizio Attività) che deve contenere una serie di informazioni tra cui l’assenza di fallimenti e condanne penali, il settore merceologico, il dominio web e l’eventuale magazzino di stoccaggio della merce ed i riferimenti del sito utilizzato per effettuare le vendite online.

Si potranno anche sfruttare i benefici della legge di Bilancio 2023, che ha innalzato da 65.000 a 85.000 euro la soglia di ricavi per beneficiare della cosiddetta flat-tax del 15% (ridotta al 5%, per i primi 5 anni).

Grande attenzione, nel momento in cui si valutano i profili di convenienza economica, va posta rispetto gli obblighi previdenziali: trattandosi infatti di attività commerciale svolta abitualmente, sono dovuti i contributi Inps alla gestione Ivs commercianti, i quali prevedono una quota minima, a prescindere dal reddito prodotto (i cosiddetti contributi sul minimale).

Attività di disc-jockey svolta all’estero: aspetti previdenziali

L’attività del disc-jockey rientra fra quelle da assicurare alla gestione dei lavoratori dello spettacolo (ex Enpals), di competenza dell’Inps, in quanto espressamente rientranti nel gruppo A dei lavoratori dello spettacolo, come ribadito dalla Cassazione con la sentenza 11377/2020.

I contributi vanno versati da parte del committente beneficiario dell’attività del disc-jockey, quando essa è svolta in Italia.

Per gli spettacoli o eventi realizzati all’estero a favore di un committente straniero, la questione è più complessa, perché possono sussistere le seguenti ipotesi:

– la prestazione nello Stato estero non è suscettibile, per la legge di quel Paese, di copertura previdenziale: il committente non ha titolo per versare in Italia i contributi, e in più non c’è la possibilità di avvalersi del distacco con il certificato Inps A1, perché il dj non può versare alla gestione Inps dello spettacolo i contributi, in quanto per i lavoratori autonomi ciò è ammesso solo per gli esercenti attività musicale. In questo caso non c’è, quindi, copertura contributiva;

– la prestazione nello Stato estero è soggetta a contributi in quello Stato secondo le leggi del luogo: non c’è alcuna possibilità che quei contributi vengano versati in Italia, per le ragioni indicate nel punto precedente. In questo caso però, ai fini previdenziali, sarà possibile (per gli Stati Ue o convenzionati con l’Italia) totalizzare questi contributi con quelli italiani per raggiungere il diritto alla pensione e, inoltre, se e quando si perfezioneranno i requisiti precisati dallo Stato estero, chiedere una pensione in tale Stato.

Trading online su piattaforma americana: come vanno dichiarati i redditi?

L’attività speculativa di compravendita di strumenti finanziari svolta in forma occasionale attraverso la piattaforma di un broker statunitense con diritto di operare in Italia comporta il conseguimento di plusvalenze nonché di minusvalenze (fra loro compensabili), da collocare nella categoria dei redditi diversi, ex articolo 67 del Tuir (Dpr 917/1986), il quale – alle lettere da c) a c-quinquies) – reca una elencazione, da considerare tassativa, di fattispecie caratterizzate da peculiarità economiche (partecipazioni, valute estere, metalli preziosi allo stato grezzo o monetato, crediti pecuniari) suscettibili di generare i redditi citati; mentre il successivo articolo 68 stabilisce le modalità della loro quantificazione.

Verosimilmente, gli stessi strumenti finanziari, nella fase della loro detenzione, che precede la cessione, potrebbero comportare anche il conseguimento di redditi di capitale, ex articolo 44 del Tuir. La redditività dei prodotti finanziari, a prescindere dalle modalità che veicolano la loro compravendita, va evidenziata e assoggettata a tassazione nel quadro RT del modello Redditi Pf, per lo più con l’attuale aliquota del 26% (salvo eccezioni) a titolo di imposta sostitutiva, oppure nei quadri RL e RM, se si tratta di redditi di capitali, in particolare di fonte estera, percepiti senza intermediari residenti.

Oltre a questi adempimenti, infine, occorre valutare se ricorrono i presupposti per la compilazione del quadro RW, allo scopo di monitorare l’eventuale disponibilità all’estero, anche per interposta persona, di attività finanziarie e per l’eventuale assolvimento dell’Ivafe (imposta sul valore delle attività finanziarie all’estero), salvo che non sussistano le esimenti previste dalla legge per uno o entrambi i casi.

Social Media Manager: Impresa o professionista?

Uno dei dubbi che manifestano coloro che stanno per avviare una attività come Social Media Manager con partita Iva (codice Ateco 73.11.02), aderendo al regime forfettario, è quello di individuare il corretto inquadramento ai fini fiscali e contributivi. In particolare se l’attività in questione sia da considerare reddito d’impresa oppure reddito da lavoro autonomo. Ciò con ovvie conseguenze sugli aspetti previdenziali dell’attività esercitata per cui il contribuente dovrà iscriversi alternativamente alla gestione separata Inps oppure alla gestione commercianti.

Occorre innanzitutto premettere che, per alcune attività, il confine tra la qualifica professionale e quella imprenditoriale dipende molto dalla modalità concreta con cui è svolta l’attività.

A livello normativo, la figura del lavoratore autonomo è descritta dall’articolo 2222 del Codice civile. Il lavoratore autonomo è quella persona fisica che si obbliga a compiere, dietro compenso, un’opera o un servizio con lavoro prevalentemente proprio e senza vincolo di subordinazione nei confronti di un committente.

Anche la figura dell’imprenditore viene descritta con un articolo del Codice civile: il 2082. Secondo questa norma, è imprenditore colui che esercita un’attività economica professionalmente organizzata al fine della produzione o dello scambio di beni e servizi.

La prevalenza della matrice intellettuale della prestazione induce a definire una certa attività quale attività professionale. Nel caso citato dal quesito siamo di fronte a un codice Ateco utilizzabile anche per attività meramente manuali, senza componente intellettuale (per esempio la distribuzione o consegna di materiale pubblicitario), però è indubbio che la descrizione delle attività comprese nel codice in questione induce a ritenere che prevalga l’aspetto “professionale”. Peraltro, anche nella classificazione dell’attività nel regime forfettario, la sezione Ateco 73 (quella citata nel quesito) è ricondotta all’attività del professionista.

In definitiva, si ritiene preferibile inquadrare il soggetto come professionista e, quindi, con iscrizione alla gestione separata Inps destinata ai professionisti, senza autonoma cassa di previdenza.

La percentuale di redditività nel regime forfettario è quella del 78% con applicazione della imposta sostitutiva del 15 o del 5 per cento, a seconda che sia una nuova attività o meno.

Come la software house tutela il codice sorgente

Le software house che si occupano di progettare soluzione software (web App, siti web e gestionali) per aziende, privati e professionisti hanno necessità di tutelarsi nel caso in cui il committente voglia utilizzare il lor codice sorgente, per esempio sviluppandolo per conto proprio.

A norma della legge sul diritto d’autore (legge 633/1941), il software è un’opera dell’ingegno riconosciuta e tutelata dal nostro ordinamento al pari di un’opera letteraria.

Il codice “sorgente” costituisce il linguaggio alfa-numerico attraverso cui il programma per elaboratore è in grado di funzionare, ma non risulta visibile all’utente finale, il quale interagisce solo con l’interfaccia del programma. Esso risulta tutelabile nella sua interezza, laddove sia dotato di valore creativo secondo l’articolo 2 della legge citata, e può costituire oggetto di cessione dei diritti nell’ambito di un contratto d’opera o appalto per lo sviluppo del software. In quest’ultimo caso, tuttavia, occorre che le parti – da una parte il committente, e, dall’altra, lo sviluppatore – indichino la finalità creativa, l’oggetto e l’ampiezza dei diritti di utilizzazione economica che vengono ceduti sul sorgente, non tralasciando l’aspetto dell’adeguata remunerazione dello sviluppatore.

In difetto di questi requisiti, come ha precisato la Cassazione nella sentenza 19335/2022, la cessione dei diritti potrebbe non perfezionarsi correttamente, causando dubbi e perplessità sulla titolarità e sullo sfruttamento dei diritti connessi ai sorgenti.