da Marco Vergani | Ott 15, 2014 | Start-up, Startup
Con la Risoluzione 87/E del 14/10/2014 l’Agenzia delle Entrate interviene sui requisiti richiesti ai fini dell’iscrizione nell’elenco delle start-up innovative. Viene in particolare esaminato il secondo dei requisiti alternativi richiesti dall’art. 25, comma 2, lett. h Dl 179/2012 ossia quello della forza lavoro “qualificata“. Tale requisito, lo ricordiamo, prevede l’impego “come dipendenti o collaboratori a qualsiasi titolo, in percentuale uguale o superiore al terzo della forza lavoro complessiva, personale in possesso di titolo di dottorato di ricerca o che sta svolgendo un dottorato di ricerca presso un’università italiana o straniera, oppure in possesso di laurea e che abbia svolto, da almeno tre anni, attività di ricerca certificata presso istituti di ricerca pubblici o privati, in Italia o all’estero, ovvero, in percentuale uguale o superiore a due terzi della forza lavoro complessiva, personale in possesso di laurea magistrale“.
In sintesi l’Agenzia delle Entrate chiarisce che:
– qualsiasi lavoratore percipiente un reddito di lavoro dipendente ovvero a questo assimilato può essere ricompreso tra la forza lavoro rilevante ai fini della verifica della sussistenza del requisito;
– l’impiego del personale qualificato può avvenire sia in forma di lavoro dipendente che a titolo di parasubordinazione o comunque “a qualunque titolo” e che sicuramente rientra nel novero anche la figura del socio amministratore;
– tuttavia, il dato letterale della norma non può portare alla scissione della locuzione “collaboratore a qualsiasi titolo” da quella di “impiego”. Pertanto gli amministratori-soci possono essere considerati ai fini del rapporto di cui all’articolo 25, comma 2, lettera h), n. 2, del DL n. 179 /12, soltanto se anche soci-lavoratori o comunque aventi un impiego retribuito nella società “a qualunque titolo”, diverso da quello organico;
– in caso contrario, qualora i soci avessero l’amministrazione della società ma non fossero in essa impiegati, gli stessi non potrebbero essere considerati tra la forza lavoro, ai fini del citato rapporto, atteso che la condizione relativa “all’impiego” nella società non risulterebbe verificata;
– gli stagisti, essi possono essere computati quale forza lavoro solo nel caso in cui siano retribuiti mentre i consulenti esterni titolari di partita Iva non possono essere annoverati tra i dipendenti e i collaboratori rilevanti ai fini del citato rapporto;
– ai fini della verifica della percentuale di un terzo o di due terzi, si deve effettuare un calcolo “per teste” e non in base alla remunerazione.
L’intervento chiarificatore dell’Agenzia pare sicuramente apprezzabile. Tuttavia, con riguardo alla figura del socio-lavoratore non risulta chiaro se l’Agenzia intende riferirsi alla circostanza di fatto per cui il socio in quanto tale svolga la propria attività in favore della società (c.d. “socio d’opera” come definito ad es. ai fini inps) oppure al fatto che lo svolgimento dell’attività lavorativa da parte del socio sia necessariamente formalizzata in un apposito contratto di lavoro dipendente con la società.
Ricordiamo infatti che la seconda ipotesi, pur essendo generalmente ammessa dalla giurisprudenza, potrebbe conciliarsi in modo problematico con le condizioni dettate dall’inps (circolare 21.6.1983 n. 177) ai fini della ammissibilità di un rapporto di lavoro subordinato con la società. In tale documento di prassi infatti l’inps afferma, tra l’altro, che “la prestazioneda parte del socio di attività lavorativa per la società deve essere diversa da quella che svolge eventualmente come socio” e tale circostanza appare francamente poco realizzabile nell’ambito delle società a ristretta base societaria che spesso possiedono gli altri requisiti per essere start-up innovative.
Ricordo infine che secondo la giurisprudenza (da ultimo Tribunale di Genova sentenza 299/2014) il socio non può giuridicamente dipende da sè stesso e quindi non sarebbe possibile stipulare un contratto di lavoro subordinato quando si è in presenza di un unico socio o di partecipazioni maggioritarie.
da Marco Vergani | Mag 13, 2014 | E-commerce, Pagamenti on line
Da parte di molti clienti, attivi nell’ambito del commercio elettronico indiretto, viene segnalata la difficoltà di reperire i codici fiscali dei clienti privati italiani nei confronti dei quali venga emessa fattura a fronte di acquisti avvenuti attraverso il passaggio a siti di operatori quali E-bay od Amazon. In questi casi il flusso delle operazioni prevede, in modo molto sintetico, i seguenti passaggi:
1) il merchant pubblica il proprio catalogo di prodotti sul sito vetrina di Amazon marketplace (ad esempio);
2) il cliente finale che decide di acquistare un prodotto effettua il pagamento direttamente ad Amazon la quale trasmette l’ordine al merchant unitamente ai dati del cliente (nome, indirizzo, ecc..) necessari al fine di effettuare la spedizione della merce ordinata;
3) periodicamente Amazon gira le somme incassate al mercahant trattenendo le proprie commissioni che saranno oggetto di separata fatturazione ad opera della filiale lussemburghese della società americana .
Il problema evidenziato risiede nel fatto che, al momento della raccolta dell’ordine, Amazon non richiede al cliente tra i dati obbligatori il codice fiscale. Il merchant si vede così costretto a rincorrere il cliente finale che ha già perfezionato l’acquisto per richiedere tale dato necessario ai fini della corretta trasmissione all’Agenzia delle Entrate dell’elenco riepilogativo delle operazioni rilevanti ai fini IVa (c.d. spesometro).
Oltre ad aver più volte informato la stessa Amazon dell’esistenza del problema vediamo quali possono essere le possibili soluzioni. Una prima ipotesi potrebbe essere quella di registrare gli incassi dai clienti privati nel registro dei corrispettivi in luogo dell’emissione della fattura che diventa obbligatoria solo se espressamente richiesta dal cliente. Si ricorda infatti che il commercio elettronico indiretto è assimilato, anche ai fini della disciplina Iva, al commercio per corrispondenza. Per tali fattispecie non è obbligatoria l’emissione della fattura, a meno che non sia richiesta dal cliente non oltre il momento di effettuazione dell’operazione, come disposto dall’art. 22, comma 1, n. 1) del D.P.R. 633/1972.
Come seconda alternativa si potrebbe valutare la possibilità di usufruire dell’esonero dalla comunicazionde per i dati relativi ad operazioni nelle quali il pagamento è avventuto mediante carte di credito, di debito o prepagate emesse da operatori finanziari soggetti all’obbligo di comunicazione previsto dall’art. 7, sesto comma, del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 605. Un elenco di tali operatori è contenuto nell’allegato al provvedimento del Direttore dell’Agenzia del 22 dicembre 2005). Ovviamente tale soluzione implica la conoscenza della modalità di pagamento scelta dal cliente al momento dell’ordine informazione che, come sembra di capire, la stessa Amazon ha deciso di non condividere con i merchant.
da Marco Vergani | Apr 24, 2014 | Diritto di recesso, E-commerce
Tra le numerose novità destinate ad entrare in vigore il prossimo 13 giugno a seguito del recpimento della Direttiva 2011/83/UE c’è l’estensione del diritto di recesso ai contratti per la fornitura di software, applicazioni, giochi, musica, video o testi, indipendentemente dal fatto che l’accesso a tali dati avvenga tramite download, streaming, supporto materiale o tramite qualsiasi altro mezzo. Infatti la citata Direttiva fa rientrare tali contratti nell’ambito generale dei “contratti a distanza” per i quali sono previste una serie di tutele a favore dei consumatori/acquirenti tra cui, in particolare, il diritto di recesso. E’ opportuno ricordare che la Direttiva introduce una più articolata disciplina deldi tale diritto rispetto alle disposizioni attualmente vigenti. In particolare viene previsto un termine più ampio per l’esercizio del diritto che passa dagli attuali 10 a 14 giorni. Qualora venga omessa l’informazione sul diritto di recesso, il periodo entro il quale potrà essere esercitato il ripensamento viene esteso dagli attuali 60 e 90 giorni – rispettivamente, dalla conclusione del contratto o dalla consegna del bene – a ben dodici mesi.
Nel caso dei beni c.d. “digitali” viene tuttavia previsto che il diritto di recesso possa essere escluso mediante un esplicito assenso fornito dall’acquirente all’atto dell’acquisto (art. 59, co. 1, lett. o) D.Lgs. 6.9.2005, n. 206). A tal fine una formula da riportare nel proprio sito web potrebbe essere la seguente «Ai sensi dell’art. 16, lett. m) della Direttiva 2011/83/UE del 25 ottobre 2011 acconsento che l’esecuzione del contratto abbia inizio durante il periodo di recesso rinunciando così al diritto di recesso».
da Marco Vergani | Mar 28, 2013 | Fiscalità, Pareri, Start-up
Alle start-up innovative non si applicano le disposizioni in materia di società di comodo e di società in perdita sistematica di cui all’articolo 30 della legge 23/12/1994, n. 724 e all’art. 2, commi da 36-decies a 36-duodecies del dl 13/8/2011, n. 138.
Per “società di comodo” si intendono quelle che non sono preposte a svolgere un’attività economica o commerciale, ma soltanto a gestire un patrimonio mobiliare o immobiliare. L’ordinamento tributario prevede una disciplina di contrasto a tali tipi societari, volta ad evitarne l’utilizzo a fini antielusivi che viene derogato nel caso in commento. Le start-up innovative, infatti, ben difficilmente potrebbero prestarsi alla mera intestazione di beni che restano nella disponibilità dei soci, dal momento che la principale classe di immobilizzazioni immateriali iscritta nell’attivo di tali società sarà costituita dalle spese di ricerca e sviluppo ovvero investimenti necessari alla realizzazione del proprio oggetto sociale innovativo.
Tuttavia la disciplina delle start-up innovative nulla afferma circa l’applicabilità o meno a tali società degli studi di settore, ovvero di quel meccanismo che consente al fisco di stimare i ricavi attribuibili al contribuente sulla base dei dati contabili e delle caratteristiche strutturali dell’attività svolta.
Sembrerebbe un controsenso, da un lato, escludere le start-up innovative dall’applicazione dei meccanismi sulle società di comodo costringendole invece, dall’altro, a dichiarare comunque un reddito minimo sulla base di altri parametri tra cui l’entità degli invetimenti effettuati.
Sarebbe auspicabile che tali società venissero escluse dall’applicazione degli studi di settore prevedendo magari una causa di esclusione ad hoc o consentendo, in sede di compilazione del modello, di inserire una causa giustificativa di esonero costituita dall’iscrizione nell’apposita sezione speciale del registro delle impese.
da Marco Vergani | Nov 22, 2012 | E-commerce, Internet
E’ in corso di approvazione presso il Senato il Disegno di Legge Comunitaria 2012 destinato a recepire il contenuto di alcune direttive europee. Tra di esse figura la Direttiva 2011/837UE che armonizza le disposizioni relative alla tutela dei consumatori nell’ambito dei contratti di vendita di beni e servizi conclusi tra consumatori e commercianti, al fine di realizzare un effettivo mercato interno tra imprese e consumatori che raggiunga il giusto equilibrio tra un adeguato livello di tutela dei consumatori e la competitività delle imprese. Per giungere a questo obiettivo la direttiva modifica e accorpa in un unico strumento orizzontale il quadro normativo di riferimento, composto da quattro direttive:
la Direttiva 93/13/CEE;
la Direttiva 1999/44/CE;
la Direttiva 85/577/CEE ;
la Direttiva 97/7/CE.
Le principali novità introdotte dalla direttiva 2011/83/UE riguardano l’introduzione di una disciplina più dettagliata degli obblighi di informazione al consumatore da parte del commerciante che dovrà fornire alcune informazioni tra cui: il proprio indirizzo; le caratteristiche del prodotto; il prezzo, comprensivo delle spese di spedizione di consegna e postali; le modalità di pagamento; l’esistenza o le condizioni di un servizio postvendita; l’eventuale interoperabilità dei prodotti digitali con hardware e software.
Per i contratti a distanza è previsto il diritto di recesso (articoli 9 e ss), portato dagli attuali 7 giorni sanciti dalla direttiva 97/7/CE a 14 giorni, entro i quali il consumatore potrà recedere dal contratto senza il pagamento di alcuna penalità. Tale termine decorre non più dalla data di conclusione del contratto di vendita ma dalla data di consegna della merce. Inoltre, se il consumatore non sarà stato informato sul diritto di recesso, questo è protratto per un anno (articolo 10).
Ulteriori novità riguardano l’obbligo per il commerciante a consegnare la merce entro 30 giorni dalla data di conclusione del contratto, scaduti i quali il consumatore può chiedere un nuovo termine di consegna. In caso di mancato rispetto di quest’ultimo il consumatore avrà diritto al rimborso delle somme versate (articolo 18). Inoltre, la direttiva pone a carico del venditore sino al momento della consegna il rischio di perdita o danneggiamento dei beni (cd. passaggio del rischio) (articolo 20). Infine, per quanto concerne i mezzi di pagamento, non sarà possibile imporre al consumatore, qualora non utilizzi contante, tariffe superiori a quelle sostenute dal professionista per l’uso degli appositi strumenti (es: commissioni su carte di credito) (articolo 19).
Il termine per il recepimento della direttiva da parte degli Stati membri è fissato al 13 dicembre 2013 e le relative disposizioni si applicheranno a partire dal 13 giugno 2014.
da Marco Vergani | Set 7, 2012 | E-commerce
Nelle vendite a distanza il consumatore che effettua l’acquisto di prodotti difettosi può rivolgersi al giudice del paese in cui è domiciliato anziche a quello del luogo di conclusione del contratto.
E’ questa, in sintesi, il principio confermato dalla Corte di Giustizia Ue nella sentenza C-190/11. Nel caso esaminato una cittadina austriaca aveva effettuato la ricerca di un’automobile su una piattaforma tedesca che l’aveva indirizzata verso una società venditrice con sede ad Amburgo. La donna, utilizzando il sito, aveva contattato la ditta e si era recata in Germania per l’acquisto. Tornata in patria, l’automobile aveva mostrato difetti, ma la società si era rifiutata di sostituire o riparare il veicolo. L’acquirente si era rivolta ai giudici austriaci che però avevano accolto le eccezioni di incompetenza della società tedesca. Secondo i giudici austriaci infatti non bastava la consultazione del sito internet (che riportatava un numero telefonico per le chiamate dall’Austria) a fondare la competenza dei tribunali austriaci ma era necessaria anche la stipulazione del contratto a distanza. La Corte di giustizia Ue chiamata in causa dalla corte austriaca per l’interpretazione dell’articolo 15 del regolamento, ha ribaltato la sentenza stabilendo che,se il contratto è concluso con una persona o società che svolge un’attività diretta, con qualsiasi mezzo, verso l’acquirente che utilizza i beni per fini non professionali, il consumatore può scegliere di agire dinanzi ai giudici del luogo in cui è domiciliato.
E’ importante notare che, secondo i giudici europei, non è necessario che il contratto sia concluso a distanza. Nel caso esaminato è bastata infatti la presenza “virtuale” del venditore tedesco in territorio austriaco attravero il proprio portale per far scattare la competenza dei giudici del luogo del consumatore.
Un’altra arma in più, dunque, per il consumatore finale ed un ulteriore grattacapo per i venditori potenzialmente soggetti ad azioni legali provenienti da tutti gli stati in cui sono effettuate le vendite.