Richard Rumelt – Good Strategy, Bad Strategy

Ho sempre apprezzato, fin dai tempi dell’Università, le idee un pò provocatorie e fuori dal comune di Richard Rumelt, universalmente riconosciuto come uno dei massimi esperti in tema di strategia competitiva. E’ stato dunque un piacere ricevere in studio una copia del suo ultimo libro dedicato all’argomento. L’idea principale del libro, ampiamente condivisibile, è che parlando di strategia aziendale, occorra fare piazza pulita di quell’insieme di affermazioni generiche e slogan motivazionali improntati al successo che sono comunemente associati al termine e individuare invece quali sono gli elementi fondanti di una buona strategia. Una buona strategia è molto di più di un semplice elenco di obiettivi. La buona strategia ha una sua struttura logica che Rumelt definisce kernel. Il kernel si compone di tre elementi: la diagnosi, le linee-guida e l’azione. Le linee-guida, in particolare, costituiscono il metodo per superare gli ostacoli delineati nella diagnosi. Esse sono come un cartello che indica la direzione in avanti, ma non definisce i dettagli del percorso. Questi ultimi sono invece affrontati e superati attraverso l’implementazione di azioni concrete, coerenti con quanto stabilito nelle linee-guida. Una volta compresi i tratti fondamentali di una buona strategia, diventa pià facile individuare la presenza di cattiva strategia ed imporre dunque i necessari cambiamenti per far in modo che la strategia torni ad essere un utile elemento di pianificazione anzichè uno sterile sostantivo privo di significato.

Per chi volesse approfondire questo ed altri interessantissimi argomenti consiglio il blog di Richard: http://www.strategyland.com/. Uno dei suoi ultimi post è dedicato a quanti vorrebbero emulare Steve Jobs e creare dal nulla una delle aziende più importanti del pianeta. Il consiglio di Richard è molto semplice: non perdere tempo a disquisire di “mission”, “vision” e “strategie” ma lavorare sodo ed impegnarsi per realizzare il miglior prodotto in assoluto. Proprio come ha fatto Steve Jobs. 

 

Inquadramento dell’attività di drop ship

Il c.d. “drop ship” è una forma di distribuzione attraverso la quale un rivenditore, senza detenere alcuna merce in magazzino, trasferisce gli ordini ricevuti dai propri clienti ad un fornitore il quale provvede ad effettuare la consegna. In tal modo il rivenditore beneficia dell’assenza di un magazzino fisico potendo d’altra parte disporre di un vasto assortimento da presentare alla propria clientela. Dal punto di vista fiscale operazioni di questo tipo, se eseguite tra soggetti residenti in Stati diversi, possono essere ricondotte nel novero delle c.d. “operazioni triangolari” ovvero quelle operazioni nelle quali i beni sono oggetto di due trasferimenti giuridici ma vengono consegnati direttamente dal primo fornitore al secondo cessionario, quindi attraverso un unico trasferimento fisico. Le operazioni triangolari sono caratterizzate dalla circostanza che l’operazione si configura come unica nei confronti dei soggetti coinvolti. Se così non fosse l’operazione non potrebbe essere considerata triangolare ma rientrerebbe nell’ordinaria ipotesi di cessione e di rivendita del bene. Dall’unicità dell’operazione discende l’ulteriore elemento distintivo della triangolazione, rappresentato dalla prescrizione che il bene oggetto della vendita sia inviato dal primo cedente al cessionario finale. Si comprende allora che la triangolazione altro non è che una vendita eseguita tra due soggetti con l’intervento di un intermediario in quale, in concreto, non avendo nella propria disponibilità il bene richiesto, si approvvigiona presso un altro soggetto.

In base alla residenza dei soggetti partecipanti le triangolazioni possono essere così classificate:

  • triangolazioni nazionali in cui intervengono 2 operatori residenti in Italia ed un terzo soggetto residente in qualsiasi altro Paese UE;
  • triangolazioni comunitarie in cui intervengono 3 operatori residenti in 3 diversi Paesi UE;
  • triangolazioni extracomunitarie in cui intervengono un operatore residente in Italia, un operatore comunitario ed un operatore residente in Paese extra UE.

 Esame di alcuni casi operativi

Si illustrano nel prosieguo due fattispecie caratterizzate dalla presenza di un operatore residente in Italia (ITA 1) che acquista dei beni in un altro Paese Ue (GER 1) per poi rivenderli ad un altro soggetto residente alternativamente:

  • in Italia (ITA 2)
  • in un altro Stato Ue (FRA 1)

Nella prima ipotesi l’operazione è inquadrabile nell’ambito delle triangolazioni “nazionali” in quanto costituita da una prima cessione intracomunitaria tra GER 1 e ITA 1 e da una seconda  cessione nazionale tra ITA 1 e ITA 2. Il caso è stato oggetto delle sentenza 6 aprile 2006 della Corte di giustizia CE, relativa alla causa C-245/04. Secondo i giudici comunitari, quando due cessioni successive relative agli stessi beni, effettuate a titolo oneroso tra due soggetti passivi d’imposta, danno luogo ad un unico trasporto dei beni da un Paese della comunità ad un altro, solo una delle due cessioni è considerata cessione intracomunitaria non imponibile nel Paese del cedente (nel caso di specie la Germania) mentre l’altra è una cessione interna da assoggettare ad Iva in uno dei due Paesi tra i quali viene effettuata la vendita. Ciò indipendentemente da chi dei tre soggetti passivi che intervengono nella transazione “a catena” (primo cedente, acquirente intermedio o cessionario finale) possa disporre dei beni durante la spedizione o il trasporto. Si ritiene che tali conclusioni siano valide tanto nella ipotesi in cui il cessionario finale ITA 2 sia un soggetto passivo Iva quanto un consumatore privato[1].

Nel secondo caso l’operazione si configura quale triangolazione intracomunitaria in quanto i tre soggetti che vi intervengono sono residenti in tre stati diversi dell’Unione Europea. Il caso è stato esaminato dalla C.M. 23.2.1994, n. 13/E la quale ha chiarito che all’operatore italiano si applica l’art. 40, co. 2 del D.L. 331/1993. Tale articolo prevede la possibilità di non assolvere l’Iva qualora venga designato a ciò un altro cessionario operante quale soggetto passivo d’imposta in un terzo Paese Ue. Tale possibilità è ovviamente esclusa nel caso in cui il destinatario finale della merce sia un privato. In tale ultima ipotesi, pertanto, si ritiene corretto emettere fattura con applicazione dell’Iva nei confronti di FRA 1.

 Triangolazioni con operatori residenti nella Repubblica di San Marino

La Repubblica di San Marino fa attualmente parte del territorio doganale dell’Unione Europea dopo la ratifica dell’accordo di cooperazione del 16 dicembre 1991 entrato in vigore il 10 aprile 2001. A seguito di tale accordo le operazioni di acquisto e vendita con essa effettuate vengono ad essere regolamentate in maniera del tutto similare alle operazioni intracomunitarie. In particolare nel caso di acquisto di beni provenienti da San Marino e destinati all’Italia, l’imposta potrà essere assolta tramite due procedure secondo quanto disposto dal D.M.  24.12.1993:

  • procedura con addebito dell’imposta: il venditore sammarinese emette fattura con applicazione dell’Iva dovuta dal cessionario italiano e versa la stessa all’Ufficio tributario sammarinese che provvederà a riversarne l’importo all’Erario;
  • procedura senza addebito dell’imposta: il venditore sammarinese emette fattura senza applicazione dell’Iva, che viene assolta dall’acquirente nazionale ai sensi dell’art. 17, co. 3, D.P.R. 633/1972. L’importatore italiano deve dare comunicazione all’Ufficio delle Entrate territorialmente competente dell’avvenuta annotazione delle operazioni nei registri di acquisto e vendita. Detta comunicazione va effettuata entro i cinque giorni dall’annotazione.

E’ appena il caso di ricordare che con R.M. 23.1.2009, n. 17/E l’Agenzia delle Entrate ha ritenuto possibile l’effettuazione di operazioni di triangolazione con operatori residenti nella Repubblica di San Marino. Pertanto, tenuto conto delle peculiarità operative appena citate, le conclusioni in precedenza raggiunte si ritengono in linea di massima compatibili con l’ipotesi in cui il primo soggetto cedente di una triangolazione sia un operatore residente in tale Stato.         



[1] Nell’ipotesi in cui nell’ambito della catena distributiva intervenga, quale ultimo cedente, un ulteriore soggetto l’operazione può configurarsi quale operazione quadrangolare. In questo caso l’art. 58, co. 1, del D.L. 331/93 dispone che il trattamento in regime di non imponibilità dell’operazione triangolare si applica anche se nell’operazione intervengano commissionari del cedente o del cessionario residente, con estensione dell’agevolazione anche nei confronti di questi ultimi.

Cessione di spazi pubblicitari su internet

Come si inquadra dal punto di vista fiscale l’attività di vendita di spazi pubblicitari su Internet? E come trattare il caso in cui gli spazi vengano ceduti gratuitamente? Proviamo a rispondere partendo da un caso concreto. Prendiamo ad esempio il caso della ditta “Alfa” che gestisce un portale Internet dedicato alla segnalazione di offerte commerciali nel settore turistico-alberghiero. Il portale ospita spazi pubblicitari (c.d. “banner”) sottoscrivibili dietro corrispettivo da terzi inserzionisti interessati a veicolare la loro offerta nel settore turistico attraverso il canale Internet. Nell’ottica di instaurare con i clienti-inserzionisti un rapporto commerciale duraturo, il gestore del portale concede alcuni spazi pubblicitari a titolo gratuito per un limitato periodo di tempo (periodo di “prova”) al termine del quale il potenziale inserzionista potrà decidere se sottoscrivere il servizio alle condizioni economiche stabilite dal gestore del portale. 

Inquadramento della fattispecie

Prima di procedere all’analisi dei risvolti fiscali della fattispecie sopra delineata si rende necessario effettuare la corretta qualificazione ai fini IVA dell’operazione. Risulta in particolare determinante appurare se la cessione di spazi pubblicitari su Internet sia classificabile quale “cessione di beni” ovvero quale “prestazione di servizi” ai fini dell’applicazione della disciplina relativa all’Imposta sul Valore Aggiunto. A tale riguardo la normativa comunitaria pare nettamente orientata verso la seconda delle soluzioni indicate. Depone infatti in tal senso la Comunicazione della Commissione Europea COM (98) 374, Commercio elettronico e tassazione indiretta, del 17 giugno 1998,  la quale ha individuato tra le linee guida per l’applicazione della disciplina delle imposte indirette al commercio elettronico, il criterio dell’assimilazione di tutte le transazioni realizzate con mezzi elettronici alle prestazioni di servizi[1]. Ad ulteriore supporto di tale conclusione è possibile menzionare il testo del Regolamento CE 17 ottobre 2005 – n. 1777/2005 (pubblicato nella Gazzetta Ufficiale dell’Unione europea n. 288 del 29 ottobre 2005 serie L) il quale, nel tentativo di definire alcuni criteri interpretativi idonei ad eliminare le divergenze nell’applicazione dell’IVA all’interno dei singoli Stati membri, ha fornito una classificazione dei c.d. “servizi eseguiti tramite mezzi elettronici” tradotti nel gergo della prassi operativa con il termine “e-commerce“. A tale riguardo il suddetto Regolamento ha precisato che rientra nell’ambito del commercio elettronico diretto, ed è pertanto qualificabile come prestazione di servizi, la “fornitura di spazio pubblicitario, compresi banner pubblicitari su una pagina web o un sito web”.

 Il trattamento ai fini IVA delle cessioni gratuite di spazi pubblicitari, effettuate a scopo promozionale

Una volta inquadrata l’operazione di cui all’oggetto nel novero delle prestazioni di servizi ai fini della disciplina sull’imposta sul valore aggiunto, si rende necessario esaminare i profili fiscali della fattispecie costituita dalla cessione a titolo gratuito (ovvero senza corrispettivo) dei banner pubblicitari. Tale pratica si rende necessaria, in un’ottica tipicamente commerciale, al fine di offrire al cliente inserzionista la possibilità di “testare” il servizio valutandone l’efficacia dal punto di vista commerciale e decidere eventualmente di sottoscriverlo alle condizioni economiche proposte.

Nella normativa nazionale, la rilevanza agli effetti dell’IVA delle prestazioni di servizi rese a titolo gratuito è contenuta nell’art. 3, terzo comma, primo periodo, del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633. Tale articolo subordina l’imponibilità ai fini IVA di tali operazioni a condizione che:

1)      l’imposta afferente agli acquisti di beni e servizi relativi alla loro esecuzione sia detraibile;

2)      il valore dell’operazione sia superiore a Euro 25,82;

3)      siano effettuate per l’uso personale o familiare dell’imprenditore ovvero per altre finalità estranee all’esercizio dell’impresa.

Tralasciando le condizioni di cui a punti sub 1) e sub 2) che appaiono senz’altro verificate nel caso di specie, merita osservare come la condizione di cui al punto sub 3) determini la rilevanza ai fini IVA della prestazione gratuita solo se la stessa è effettuata per l’uso personale o familiare dell’imprenditore ovvero per altre finalità estranee all’esercizio dell’impresa. Rientrano quindi nell’ambito applicativo dell’imposta solo le prestazioni gratuite che rispondano a finalità di liberalità e non quelle che sono tese a soddisfare uno specifico interesse imprenditoriale del prestatore. Ciò risulta confermato dall’ultima parte dell’art. 3, terzo comma, primo periodo, del D.P.R. n. 633/1972, che prende espressamente in considerazione – al fine di escluderle dall’ambito impositivo – ipotesi di prestazioni gratuite che, evidenziando tale carattere di liberalità, in carenza della disposizione pacificamente rientrerebbero nel campo di applicazione del tributo[2].

Con riguardo al caso di specie, è possibile concludere che, essendo la cessione gratuita dei banner pubblicitari funzionale all’esercizio ottimale dell’attività d’impresa[3], la stessa non può configurarsi quale prestazione di servizi imponibile ai fini IVA in quanto non rientrante nelle ipotesi indicate dall’art. 3, terzo comma, primo periodo, del D.P.R. n. 633/72.



[1] A risultati interpretativi opposti, nel senso di un possibile inquadramento delle attività di commercio elettronico tra le cessioni di beni anziché tra le prestazioni di servizi, parrebbe invece condurre la normativa nazionale ed, in particolare, l’art. 2 del d.p.r. 633/72 che -come è noto – prevede una definizione molto ampia di cessioni di beni (“beni di ogni genere e specie”) al cui interno possono rientrare anche i trasferimenti di beni non materiali, effettuati mediante l’utilizzo di strumenti informatici. Tale impostazione non pare tuttavia conforme all’ordinamento comunitario – prevalente in caso di contrasti con la normativa interna – tenuto conto che l’art. 14, paragrafo 1, della direttiva 2006/112/Ce considera quali cessioni di beni soltanto quelli che hanno ad oggetto beni materiali ed il successivo art. 25 include le cessioni di beni immateriali tra le prestazioni di servizi.

[2] Quali, in via esemplificativa, le prestazioni di divulgazione pubblicitaria effettuata verso enti senza scopo di lucro.

[3] Ovvero all’ottenimento di un ritorno economico indiretto pur in assenza di un immediato corrispettivo.